Con la Relazione n. 56 del 08.07.2020, la Cassazione prende posizione sulle problematiche legate a Covid-19 e obbligo di rinegoziazione dei contratti. Come noto, l’attuale pandemia sta avendo grandissime ripercussioni sui traffici commerciali; in particolare, le nuove condizioni giuridico-economiche dei mercati hanno sottoposto i contratti ad uno stress-test di tenuta dell’equilibrio corrispettivo – o, con termine tecnico, sinallagmatico – tra le contrapposte prestazioni. Così, ad esempio, la forzata chiusura di molte attività produttive e commerciali ha provocato un’interruzione dei relativi flussi finanziari e dunque la difficoltà per gli operatori economici di far fronte agli obblighi di pagamento precedentemente assunti (tipico è il caso delle attività commerciali esercitate all’interno di locali condotti in locazione). In altri casi, invece, l’adeguamento alle nuove norme di sicurezza ha determinato un considerevole aumento dei costi di produzione o di fornitura, con conseguente inadeguatezza dei corrispettivi originariamente pattuiti. Nei casi più estremi, l’emergenza sanitaria – e le conseguenti limitazioni imposte all’attività delle imprese – ha definitivamente o temporaneamente impedito alle imprese di far fronte agli impegni contrattuali.
Tale contesto solleva molte problematiche di eccezionale complessità, sia per la loro assoluta novità, sia per la loro capacità di attingere trasversalmente tutti i contesti economici, produttivi e relazionali della società, sia infine per la loro imprevedibilità. A fronte di tale eccezionalità, però, gli strumenti a disposizione dei giuristi continuano ad essere gli ordinari strumenti offerti dal Codice Civile del 1942, la cui applicazione ha condotto sin qui a risultati incerti ed ondivaghi. L’unica certezza, da tutti condivisa, è che il criterio chiave per affrontare e dirimere le descritte problematiche è e deve essere quello della buona fede, anche declinato come impegno alla rinegoziazione dei contratti (sull’argomento, ci si permette di rinviare ad alcune brevi considerazioni altrove precedentemente formulate circa l’immutata forza e validità di concetti ed istituti elaborati dal diritto romano). In un ordinamento di civil law, come il nostro, tale indicazione non è però sufficiente, dovendosi sempre e comunque ricercare soluzioni fondate su un dato normativo.
In questo panorama, è intervenuta l’autorevole voce della Corte di Cassazione, il cui Ufficio del Massimario, con la Relazione n. 56 del 08.07.2020, ha affrontato i sopra descritti problemi connessi a Covid-19 e obbligo di rinegoziazione dei contratti, indicando una possibile soluzione.
Passando in rassegna gli istituti codicistici, la Relazione evidenzia l’inadeguatezza dell’art. 1463 c.c., in tema di impossibilità sopravvenuta, qualora la difficoltà di esecuzione riguardi una prestazione pecuniaria. Secondo un principio cardine del nostro ordinamento, infatti, la prestazione consistente nel pagamento di una somma di denaro è, in quanto tale, sempre possibile, poiché il denaro è un bene fungibile e, come insegna l’antico brocardo, genus numquam perit. Non solo: la Relazione conclude la disamina dell’istituto osservando che “fare perno sulle disposizioni in materia di impossibilità sopravvenuta per smarcare in tutto o in parte il locatario dal pagamento del canone vuol dire correggere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale, dislocando una porzione delle conseguente finanziarie del Covid da una parte all’altra del contratto, ma sulla base di una considerazione che appare ispirata al buon senso, più che al rigore giuridico“, così giungendo alle medesime conclusioni da noi delineate in un precedente contributo sul tema.
Continuando la rassegna, la Relazione si concentra poi sull’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, la cui utilità viene però negata nel contesto attuale, poiché “il virus globale accende i riflettori sulla sua [dell’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, n.d.r.] manchevolezza, legata alla sua propensione demolitoria e non conservativa del contratto. Il rimedio è volto a rimuovere il vincolo, non a riequilibrare il sinallagma. Pertanto finisce per fare terra bruciata delle relazioni d’impresa come di quelle fra privati cittadini, in quanto conduce alla definitiva risoluzione del rapporto, non alla transitoria riduzione dei corrispettivi, che l’art. 1467 c.c. alla lettera non contempla“.
La Relazione, a ragione, boccia anche la norma di cui all’art. 3, comma 6-bis del d.l. n. 6/2020, secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento … è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore“. Tale norma, a giudizio della Cassazione, non solo sarebbe sostanzialmente ripetitiva dell’art. 1218 c.c., ma lascerebbe altresì immutate le incertezze già generate dalla normativa codicistica, in quanto essa non introduce alcun automatismo tra impossibilità della prestazione per rispetto nelle norme di contenimento ed esenzione da responsabilità.
Infine, la Relazione giudica inadeguate anche le norme di cui agli artt. 1366 e 1374 c.c., in tema di buona fede. Il primo articolo, infatti, consente di utilizzare il criterio della buona fede solo come elemento di interpretazione del contratto, ma non di sua integrazione. Il secondo, invece, che pure consentirebbe di integrare gli effetti contratto secondo buona fede, imporrebbe sempre e comunque il rispetto dei limiti già tracciati dalle parti, quanto meno in termini di ripartizione del rischio e determinazione dell’equilibrio negoziale; sarebbe invece preclusa la possibilità di utilizzare la norma in questione per individuare nuovi equilibri negoziali.
Così scartate le varie opzioni, la Relazione indica infine quello che, a suo giudizio, è il miglior strumento per riconoscere alle parti il diritto – giudizialmente azionabile – ad una rinegoziazione del contratto secondo buona fede, ossia l’art. 2932 c.c. in materia di obbligo di contrarre. Così, compiendo un salto logico non privo di contraddizioni, la Cassazione, dopo aver affermato – condivisibilmente – che “l’obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo” e che “la norma dell’art. 2932 c.c. viene solitamente adoperata allorché l’oggetto del contratto da concludere sia già determinato prima dell’intervento del magistrato, la cui pronuncia si limita a tenere il posto di una volontà già definita nel suo oggetto o di una previsione di legge“, conclude affermando che “nel caso della rinegoziazione, viceversa, l’intervento in parola assume una doppia valenza: tiene luogo della volontà delle parti; nel contempo ne determina in maniera più larga e considerevole il contenuto, non mutuando un regolamento dettagliatamente precostituito“.
Tale conclusione, a parere di chi scrive, non può essere condivisa, poiché essa, in ultima analisi, dimentica completamente sia il dato testuale dell’art. 2932 c.c., sia l’interpretazione che costantemente dottrina e giurisprudenza ne hanno dato. Secondo il primo, infatti, la norma in questione è invocabile solo quando le parti si sono già obbligate a concludere un contratto; per la seconda, invece, la pronuncia del giudice può sostituirsi alla volontà delle parti solo per quanto concerne la produzione dei relativi effetti, ma non anche nella determinazione del contenuto contrattuale. La preoccupazione della Cassazione è dichiaratamente quella di offrire agli operatori uno strumento per assicurare la conservazione dei contratti messi in pericolo dalla pandemia, e ciò è comprensibile e condivisibile; tuttavia, sarebbe stato auspicabile che nella pars construens di tale studio si fosse mantenuto lo stesso rigore metodologico utilizzato per la precedente pars destruens, senza forzare il dato normativo oltre l’accettabile e, da ultimo, anche ammettendo la possibilità che un tale strumento, allo stato, manchi del tutto nel nostro ordinamento.